Il termine Fast Fashion è stato utilizzato per la prima volta nel 1989 dal New York Times in occasione dell’apertura a New York di un negozio di Zara.
Possiamo dire che lo scopo del Fast Fashion sia quello di riprodurre i famosi trend di stagione visti alle sfilate di moda, in un modo rapido e che genera acquisti compulsivi.
Si parla infatti di 20 capi a persona prodotti ogni anno, per un totale di 154 miliardi di pezzi solo nel 2017.
È evidente che questo tipo di acquisto non tiene conto della qualità e della longevità del prodotto. Ma soprattutto, non vengono considerati i diritti di chi lavora nell’industria del fast fashion!
Fast Fashion e diritti umani
Prendiamo la data del 24 aprile 2013.
Siamo a Savar, nella periferia di Dacca, capitale del Bangladesh: migliaia di operai tessili vennero evacuati dal Rana Plaza, un edificio di otto piani, per la comparsa di crepe nella struttura. Dopo poco, vengono fatti rientrare al lavoro.
L’edificio ospita infatti diversi stabilimenti tessili assoldati da prestigiosi marchi occidentali di abbigliamento, e la produzione deve continuare.
Il fatto che oggi possiamo acquistare una T-Shirt a 1,99€ in un centro commerciale ci deve far riflettere su questa e altre numerose violazioni dei diritti dei lavoratori e dei diritti umani.
Ma vediamo come l’industria del Fast Fashion sia potuta esplodere.
Le 4 rivoluzioni del Fast Fashion
Prima Rivoluzione
A fine ‘800 assistiamo ai primi atti di registrazione dei brand. Oggi nel mondo ci sono 40 milioni di brand registrati, ma solo 100 di loro vincono. In diversi casi viene abbandonato il nome del prodotto a beneficio del nome del produttore, quindi un prodotto viene associato a un brand.
Seconda Rivoluzione
Con l’avvento della televisione e della grande distribuzione nasce un nuovo linguaggio, con una pubblicità basata su microstorie emozionali, dove la marca è essa stessa una garanzia.
Terza Rivoluzione
Siamo alla metà degli anni ‘70 in concomitanza con la crisi petrolifera. Si passa dalla logica dei BISOGNI alla logica dei DESIDERI. La marca acquista un valore relazionale, quello che oggi conosciamo: si acquista un determinato prodotto perché si vuole essere parte del mondo evocato da quella marca.
Quarta Rivoluzione
È innescata dalla telefonia cellulare e dal web, che incrementano la globalizzazione. Questa triade genera una compressione delle categorie spazio e tempo, che risultano quasi annullate.
Nella moltiplicazione esponenziale dei messaggi della fast fashion il consumatore perde la memoria. Se ne accorgono le multinazionali che puntano a ridurre sempre di più il numero dei brand e a concentrare fatturato e valore in poche marche.
Ma la pandemia da COVID-19 ha messo a nudo una moda che non stava bene già da tempo! Anche prima della pandemia le giacenze dell’Industria della moda erano eccessive, se consideriamo che solo il 60% dei capi veniva venduto a prezzo pieno.
Un’industria insostenibile per il pianeta
Dal Forum di Ginevra del 2018, l’ONU lancia un allarme per il Fast Fashion, dato che questo modo di produrre è responsabile del 20% delle acque di scarico e del 10% delle emissioni globali.
Oggi per effetto di una produzione fuori controllo e quell’atteggiamento da parte del consumatore dell’usa e getta viene mandato in discarica un camion di abiti o accessori al secondo. E il settore tessile è interessato da un tasso di crescita annuale compreso tra il 3,5 % e il 4,5 %.
Una cosa è certa: è doveroso rivedere questo modo di produrre e consumare.